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Etnopsichiatria: le patologie che dicono da dove vieni

Il termine “etnopsichiatria” è la crasi di tre parole di origine greca: éthnos, ovvero famiglia, razza o territorio; psyche, spirito o soffio vitale; iatreia, prendersi cura di qualcuno o qualcosa, potremmo quindi intenderla come il prendersi cura dello spirito territoriale. Attualmente si classifica come un ramo della psichiatria che studia disturbi e sindromi tenendo conto del contesto culturale in cui si manifestano, e/o del gruppo etnico di provenienza del soggetto coinvolto; viene definita anche psichiatria culturale, transculturale o comparativa. Questa disciplina evidenzia la specificità di alcuni disturbi strettamente collegati all’ambiente culturale e non riconducibili a categorie patologiche universalmente riconosciute o condivise. L’importanza del punto di vista etnopsichiatrico è accentuata, in questo periodo storico, dalla presenza di flussi migratori che ci portano a contatto con nuove culture e credenze, diverse da quella occidentale a cui siamo abituati. La specificità dell’etnopsichiatria è il dialogo costante con l’antropologia, la sociologia e l’etnologia, discipline che si occupano dei gruppi umani e culturali e dei loro aspetti variegati e compositi. Nel DSM-V sono solitamente indicate all’interno dei disturbi con altra specificazione, per cui pur non soddisfacendo i sintomi necessari per una specifica categoria diagnostica, necessitano di attenzione clinica.

Studi Italiani

Gli studi etnopsichiatrici non precludono la possibilità di riscontrare sindromi particolari all’interno della propria cultura, difatti evidenze in Italia sono state identificate per la prima volta da Ernesto De Martino, alla fine degli anni 50, attraverso studi del tarantismo in sud Italia (sindrome isterica considerata come conseguente al morso di un ragno o altro animale, tra i sintomi presenza di gesti e vocalizzazioni tipiche dell’isteria, catatonia, depressione e dolori fisici per lo più addominali), della magia cerimoniale in Lucania, e dell’elaborazione rituale del lutto. De Martino descrisse le sindromi etnopsichiatriche come disturbi mentali relazionati al condizionamento culturale, in riferimento al nesso tra disturbi psichici e simbolismo mitico-rituale, la cui funzione è vista, da tali culture, come catartica e riequilibratrice, per cui curativa. Per questo studioso a curare, in questi casi, sarà la possibilità di risituare il male all’interno di un piano mitico rituale, che consenta all’individuo una reintegrazione nel gruppo. La cura del tarantismo, difatti, era affidata ad una musica corale, in cui il soggetto era portato ad una sorta di trance attraverso una danza frenetica, dando luogo ad un fenomeno definito “esorcismo musicale”. Un altro grande contributo è quello dello psichiatra Michele Risso, che svolse la sua attività in Svizzera, presso la clinica psichiatrica di Berna, con pazienti immigrati provenienti dalle aree rurali del sud Italia. Lo studioso si occupò di casi di particolari angosce e sintomi presentati da questi pazienti, e da loro indicati come derivati di “fattura” e “malocchio”, impossibili da allontanare se non attraverso imposizioni delle mani, segni di croci con le dita e preghiere o canti fatti a voce bassa per liberarsi dell’influenza malefica (tale sindrome è presente anche in altre culture, quali ad esempio Spagna, America Latina e Stati Uniti, e debellata in diverse maniere in base all’area geografica).

Sindromi etnopsichiatriche rilevanti

  • Amok, tipica delle regioni del sud-est asiatico, della Malesia, dell’Indonesia e della Nuova Guinea. Si tratta di una condizione temporanea di furia violenta e omicida. Origina da un’offesa ricevuta e vissuta come intollerabile o da un accumulo di tensione a seguito di offese ricevute per diverso tempo, che scatenano idee persecutorie ricorrenti. Dopo una breve fase di ritiro relazionale il soggetto aggredisce chiunque incontri, sia esso umano o animale, e qualsiasi cosa si trovi sul suo cammino, oggetti o case, correndo velocissimamente per strade e campi in un crescendo incontrollabile di furia omicida e distruttiva, fino a che non si accascia stremato a terra. Tali episodi solitamente sono seguiti da amnesia totale dell’accaduto. Il comportamento violento ed aggressivo è comune alle varie culture, ciò che caratterizza l’Amok, e gli conferisce specificità, è la combinazione di eventi scatenanti unita alla mancata capacità di ricordare. Il primo a descrivere questo caso fu il capitano Cook nel 1770 nel suo viaggio in Malesia, gli abitanti del villaggio giustificavano l’evento specificando che l’individuo era posseduto dal “hantu belian” spirito malvagio di una tigre. Sono state distinte dagli osservatori due forme di questa sindrome, la Beramok derivante da uno stato depressivo e l’Amok connessa invece alla rabbia, il DSM-V non differenzia tra le due specificità.
  • Koro, tipico del sud-est asiatico, in particolare Singapore, indica un episodio di ansia intensa ed improvvisa, derivante dalla paura che il pene possa ritrarsi nell’addome, o comunque all’interno del corpo, provocando nel soggetto la morte. Per quanto riguarda il genere femminile la paura si riversa sulla vulva o sui capezzoli, ha un’incidenza molto minore rispetto al genere maschile. L’esordio è improvviso, possono verificarsi precedentemente alcuni episodi di ansia intensa. Sembra essere legato alla presenza di eventi traumatici, o situazioni stressanti, seguite da ansia e paura, i soggetti inoltre risultano avere una conoscenza limitata della propria condizione. Nel DSM-V è indicata come disturbo d’ansia con altra specificazione, l’incidenza stimata è abbastanza alta, circa il 64% degli uomini che si rivolgono alle cliniche psichiatriche in India ed il 30% in Pakistan.
  • Fana, è una sorta di unione tra fenomeni transculturali, patologia e scontri di culture. Diffusa nei paesi arabi e di religione mussulmana, parte dal presupposto che tale religione veda il suicidio come un sacrilegio contro Allah, difatti, a discapito di ciò che si possa pensare a seguito di eventi di cronaca, il tasso suicidario in queste regioni è molto basso rispetto ai paesi occidentali. La sola forma di suicidio accettata, e addirittura esaltata, è quella connessa ad un gesto eroico come forma di martirio, che ai giorni nostri si traduce in chiave terroristica. Il termine Fana si riferisce a questa specifica condizione, in cui il valore del proprio sacrificio fornisce una giustificazione mentale chiara e precisa a ciò che in altre culture viene definito come follia omicida/suicida. Il martirio si accompagna quindi ad un quadro psicopatologico in cui il soggetto agisce in preda ad una trance mistica, una sorta di delirio religioso che guida le proprie azioni. Pare che questa pratica abbia origini dalla setta degli Hashashin (uomini dediti all’hashish, il cui nome divenne simbolo di morte e diede origine al termine assassino, usato ai nostri giorni) che agiva per lo più in Iran e Siria, dall’XI secolo in poi, un gruppo di estremisti islamici dedito a carneficine dei propri nemici, che riteneva che sopravvivere ad azioni di terrorismo politico dovesse essere considerato un disonore.

E voi conoscevate queste particolari sindromi culturali? Ne conoscete qualcuna non menzionata nell’articolo? Fatecelo sapere commentando il nostro blog!

 

 

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