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Aggressività: caratteristica innata o apprendimento sociale?

L’aggressività è stata a lungo oggetto di ricerche psicologiche da parte di illustri esponenti della psicologia. La comprensione dei meccanismi di questa modalità di espressione, oltre ad essere fondamentale per la comprensione dell’individuo, è necessaria alla pratica educativa delle generazioni future. Scopriamo insieme perché.Lo studioso Albert Bandura nel 1961 ideò, con il suo gruppo di collaboratori della Standford University, un esperimento conosciuto come “esperimento della bambola Bobo”, che portò avanti al fine di dimostrare che l’aggressività sia un prodotto dell’apprendimento sociale.

Premesse teoriche

Bandura rifiutava le posizioni innatiste secondo le quali è un meccanismo biologico innato a produrre il comportamento aggressivo; rientrano in queste il Thanatos di Freud, che simboleggia il principio di morte come insito nell’individuo e visibile all’esterno sotto forma di aggressività, e L’istinto alla lotta di Lorenz che, a seguito delle sue ricerche etologiche, ritenne l’aggressività un istinto animale innato, funzionale alla sopravvivenza. Bandura si discosta anche dalle teorie che ipotizzavano un nesso frustrazione-aggressività, come quella di Dollard, dove ad un accumulo della prima corrisponde un agito della seconda. Per Bandura, nella definizione dell’aggressività, non è possibile focalizzarsi su rapporti causa-effetto o su una imprescindibile presenza biologica, bensì bisogna capire come si creano i modelli di comportamento aggressivo, quali condizioni ne favoriscono la creazione e quali variabili ricoprono un ruolo significativo nel processo. La sua ipotesi è che gli individui apprendano tali modelli attraverso l’esperienza dell’agito aggressivo, quindi anche per mezzo della semplice visione di atteggiamenti di questo tipo da parte di persone del proprio ambiente di riferimento, la quale comporterà un rimodellamento degli standard interni di comportamento del soggetto, fondandosi su processi di imitazione.

L’esperimento

Bandura e coll., suddivisero un campione di 96 bambini dai 3 ai 6 anni, equamente distribuiti per genere, in tre differenti gruppi che vennero collocati all’interno di una stanza con dei giochi e sottoposti alla visione di tre scene diverse:

  • Nel primo gruppo inserì uno dei suoi collaboratori, che mostrò atteggiamenti aggressivi nei confronti di un pupazzo gonfiabile, chiamato Bobo, sia attraverso gesti fisici (lo picchiava in diverse maniere anche con l’ausilio di un martelletto), sia attraverso attacchi verbali.
  • Nel secondo gruppo, quello di confronto, un altro collaboratore giocava con costruzioni di legno ed altri giochi a disposizione, senza manifestare alcun tipo di aggressività nei confronti di Bobo né di altri giocattoli. 
  • Nel terzo gruppo, quello di controllo, non c’era la presenza di collaboratori, bensì i bambini avevano la possibilità di giocare liberamente, senza alcun adulto con funzione di modello.

In una fase successiva i bambini furono condotti in una stanza nella quale vi erano giochi neutri (peluche, macchine, costruzioni) e giochi “violenti” (armi giocattolo, Bobo, una palla con una faccia dipinta legata ad una corda). Nell’osservazione del gioco in questo caso Bandura poté verificare che i bambini che avevano osservato l’adulto agire aggressività verso Bobo, manifestavano un’incidenza maggiore di comportamenti aggressivi, sia rispetto a quelli del secondo gruppo, che aveva avuto un modello neutro, sia rispetto ai bambini che avevano giocato liberamente. Da ciò il gruppo di lavoro dedusse che, differentemente dalle ipotesi del comportamentismo, che individuava nel sistema di premi e punizioni la base dell’apprendimento, è possibile imparare anche attraverso l’apprendimento vicario, semplicemente osservando un modello e imitandolo, modificando così schemi comportamentali precedenti. Questo studio getta quindi le basi sull’importanza dell’apprendimento sociale e degli ambienti di vita in cui il bambino si forma (per vedere l’esperimento clicca qui  https://youtu.be/RRi5xMHQ5pA )

Considerazioni

L’esperimento ha aggiunto un nuovo tassello alle precedenti visioni dell’aggressività; a lungo è stato, difatti, utilizzato per valutare le influenze sullo sviluppo delle maggiori fonti di imitazione a cui l’individuo attinge, soprattutto in tenera età: la famiglia, il gruppo dei pari ed i mezzi di comunicazione di massa. Assistere al ripetersi di atteggiamenti aggressivi può sicuramente minare la costituzione degli schemi di comportamento nell’individuo, ma, accettare tale assunto, rigettando una visione di insieme, non tiene conto della percentuale dei bambini che nell’esperimento, nonostante fossero nel primo gruppo, non hanno successivamente agito comportamenti aggressivi. Inoltre è impossibile negare le basi biologiche delle emozioni primarie, che vedono la rabbia parte integrante di queste ultime (per maggiori approfondimenti leggi “La rabbia: come riconoscerla, affrontarla e superarla” ‎.). Tutte queste considerazioni permettono di asserire che l’aggressività sia un costrutto complesso che si fonda su diversi aspetti simultaneamente che agiscono sull’individuo, e che l’esposizione a modelli comportamentali aggressivi può influire notevolmente sulle modalità di interazione future dell’individuo.

 

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