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Empatia: mettiti nei miei panni

“Mettiti nei miei panni”; “se io fossi in te”; “ti capisco perché ci sono già passato”; frasi che quotidianamente ripetiamo ad amici e parenti per sentirci emotivamente più vicini a loro in un momento che, positivamente o negativamente, li sta segnando profondamente.

Capacità di esperire sentimenti e stati d’animo appropriati e consonanti con quelli di un’altra persona è la definizione che Hoffman (1986) dà di empatia — en pathos letteralmente “sentire dentro”, ed oggi parleremo di questa particolare abilità sociale che alcuni individui sperimentano più di altri. L’attivazione emotiva sottende le capacità cognitive e motivazionali personali, delle quali l’individuo decide di servirsi per cercare di riconoscere e condividere le emozioni dell’altro, soccorrendolo per donargli uno stato di benessere e sollievo. Empatizzare con l’altro è una capacità sostenuta anche da basi biologiche, infatti le moderne neuroscienze, con l’individuazione dei già noti neuroni specchio, hanno dimostrato che soffriamo o gioiamo della situazione altrui nella stessa misura in cui la viviamo in prima persona, attivando le medesime aree cerebrali. Attività minima o totalmente assente, ad esempio, riscontrata nei criminali, i quali non mostrano alcuna preoccupazione verso gli altri.

Probabilmente si impara ad essere empatici già dalla prima infanzia, quando, nelle primissime relazioni di attaccamento, comprendiamo se i nostri bisogni e le nostre richieste possono trovare accoglimento dall’altro significativo. L’istruzione scolastica danese ha deciso di investire proprio sui bambini con il progetto “Klassens Tid”, che prevede un’ora a settimana per l’insegnamento dell’empatia. Mentre si gusta una torta, i piccoli hanno la possibilità di analizzare problemi individuali o di gruppo da ogni angolazione, ottenere la solidarietà dei compagni, attraverso l’ascolto e capire l’importanza del rispetto reciproco. Creare un ambiente familiare ed accogliente consente ai bambini di esprimersi in modo libero e spontaneo, mentre gli insegnanti riescono a capire in che modo poter offrire loro aiuto e conforto, rendendo la “lezione di empatia” il più produttiva possibile. Tale progetto, in vigore dagli anni ’90 e ancora oggi attivo in Danimarca, ha evidenziato come insegnare l’empatia da piccoli possa formare adulti più felici in futuro (i danesi sono gli abitanti più felici del mondo, stando al Word Happiness Report 2016) in grado di immedesimarsi nello stato d’animo dell’altro, a dispetto di una società che oggi appare molto più disconnessa, individualista ed indifferente di ieri.

Un’altra importante iniziativa per sottolineare questa straordinaria risorsa, a vantaggio evolutivo per l’uomo, arriva da Londra, ma è stata adottata anche da altre città, attraverso la creazione dell’ “Empathy Museum”, un luogo in cui è possibile indossare scarpe di sconosciuti e ascoltare in cuffia la loro storia personale, cercando di sintonizzarsi con il sentire altrui. Un’esperienza simbolica che chiaramente nasce dall’esigenza di promuovere questa particolare capacità, presupposto indispensabile nelle relazioni interpersonali per abbattere pregiudizi e fondamentale per l’integrazione sociale. Assumere la prospettiva dell’altro non riguarda solo comprenderlo e ascoltarlo, ma rientra nella sfera del “sentire l’altro”, di una connessione con un diverso universo interiore di pensieri e sentimenti, e cercare di incontrarsi a metà strada per fornire un adeguato sostegno.

Un esempio di come l’empatia possa unire persone, universi e storie completamente agli antipodi è descritto nel film Quasi Amici, diretto da O. Nakache e E. Toledano del 2011, in cui un anziano tetraplegico e un giovane “badante” imparano a fidarsi l’uno dell’altro, abbattendo le barriere degli stereotipi. La trama del film mostra proprio i dettami per una relazione prosociale in cui i comportamenti di entrambi tentano di affinare le personali capacità emotive, consentendo di uscire da un egocentrismo che troppo spesso offusca la presenza dell’altro.

Ciò che accomuna le persone fortemente empatiche è senza dubbio la capacità di saper spostare l’attenzione dalla propria lista di cose importanti su quella di un’altra diversa da sé e, in questo modo, vestirne i panni per comprenderne punti di vista, modi di pensare, agire e sentire rispetto ad alcune situazioni che possono destare preoccupazioni. Connettersi empaticamente con l’altro permette di alimentare la relazione con chi ci sta di fronte, consentendo di: assumerne la prospettiva, astenersi da commenti e giudizi inopportuni, riconoscerne le emozioni ed infine comunicare in modo educato e pacato. L’abilità empatica, quindi, è molto più profonda del sentimento di compassione, ad esempio. Quest’ultimo mira ad evidenziare il lato positivo della situazione al fine di alleviare il dolore altrui; l’altra, invece, è attivata sulla base di sentimenti e vissuti personali e coinvolge modalità di azioni proprie precedentemente esperite e, per questo, a volte, motivo di vulnerabilità.

Provare empatia, come si evince, è un’abilità che può essere acquisita o modellata con programmi adeguati che spingono ad attuare comportamenti di tipo altruistico e prosociale, sensibilizzando all’attenzione dell’altro. Try walking in my shoes, come cantano i Depeche Mode, può rappresentare un consiglio concreto per poter conoscere, comprendere e collegarsi con le vite degli altri ai quali riservare una mano che sostiene piuttosto che una parola che giudica.

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