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Autolesionismo: apro la mia pelle per guardare cos’ho dentro

L’autolesionismo include una serie di condotte lesive, ripetitive e generalmente non letali, messe in atto volontariamente ed intenzionalmente dall’individuo sul proprio corpo al fine di lederlo, ferirlo. Non rientrano nelle condotte autolesive quei comportamenti che non hanno il fine unico di ferire il corpo, anche se indirettamente lo danneggiano, ad esempio condotte bulimiche, anoressiche o abuso di sostanze.

L’autolesionismo può essere suddiviso in due macro aree, una “culturalmente approvata” e l’altra “deviante”. (Favazza, 1996)

L’autolesionismo deviante è ascrivibile ad una serie di patologie psichiatriche riconosciute dal DSM-V con specifici criteri diagnostici.

L’autolesionismo culturalmente approvato, include condotte accettate dal gruppo di appartenenza, si differenziano di cultura in cultura, ma nessuna ne è scevra. Portiamo l’esempio dei tatuaggi https://www.psiconovel.it/mi-tatuo-dunque-sono/, dei piercing, delle incisioni, degli impianti epidermici, o della chirurgia estetica; riportiamo anche delle innovative rappresentazioni artistiche di alcuni artisti contemporanei che basano le proprie performance sull’assalto al proprio corpo (Marina Abramovic, Gina Pane).

L’autolesionismo, in qualunque forma si esprima, è una condotta necessaria per colui o colei che la mette in atto, è un gesto apparentemente risolutivo per tenere a bada insostenibili stati interiori. Pensate ad una bolla d’aria che cresce senza sosta e più si riempie più la tensione aumenta, la lama o il fuoco sulla pelle rappresentano l’ago che fora la bolla, libera l’aria e scioglie la tensione.

È possibile ricorrere al concetto di “organizzatori di senso” (Rossi Monti e D’agostino, 2009), che spiega le possibili dinamiche inconsce che si celano dietro il gesto lesivo. L’arma che s’impugna e si dirige verso sé stessi assolve a specifiche funzioni e risponde ad improrogabili esigenze:

  • Concretizzare, l’autolesionismo sposta sul corpo un insostenibile stato psichico, in modo che possa essere visto e, dunque, gestito.
  • Estirpare/purificare, quando il gesto autolesionista serve a creare un varco che permetta alla parte inaccettabile del sé di fuoriuscire e, in questo modo, riuscire a purificarsi liberandosi del marcio.
  • Far fronte alla disforia, soprattutto quando la condotta è legata ad una personalità borderline, attraverso il gesto concreto e l’esperienza dolorosa ci si accerta di essere reali, risolvendo le esperienze di derealizzazione e depersonalizzazione
  • Comunicare, attraverso l’atto lesivo si comunica all’altro, utilizzando il proprio corpo, un forte dolore e si ricerca una risposta accudente e di cura.
  • Diventare soggetti attivi, impugnando l’oggetto contundente si diventa autori del proprio dolore, attori attivi nella determinazione del trauma, al fine di ribaltare la posizione passiva, di chi il trauma l’ha subito.

Statisticamente sono gli adolescenti ad avere maggiori probabilità di divenire autoferitori, sia per sperimentare un corpo nuovo, che per punire o rinnegare una naturale trasformazione. Oltretutto il ferirsi è una pratica che consente di misurare il proprio grado di tolleranza, la propria capacità di sopportazione; tramite un meccanismo di spostamento si sperimenta la sopportazione al dolore autoinflitto al fine di accertare la propria tolleranza allo stress ed al cambiamento.

Le condotte autolesive più diffuse sono: il cutting (tagliarsi, solitamente in posti poco visibili come le gambe o gli avambracci), il burning (bruciarsi con oggetti incandescenti o esporsi direttamente alle fiamme), grattarsi le ferite per interferire con la loro guarigione, sfregarsi la pelle fino al sanguinamento, strappar via ciocche di capelli o pezzi di unghie.

Per chi non ha mai sperimentato simili pratiche, il solo leggerle o immaginarle paventa dolore, perché nella maggior parte dei casi si è spinti all’azione dalla pulsione vitale, un meccanismo inconscio che ci spinge all’autoconservazione. È dunque faticoso immergersi nella psiche di un autolesionista per comprendere la ragione dei suoi gesti. Immaginiamo l’invalidante sensazione di non aver alcun controllo sull’ambiente circostante, sulle esperienze vissute, sulle relazioni e ancor peggio sulle emozioni, immaginiamo un dolore psichico tanto grande da risultare ingestibile, questa è la condizione alla quale si cerca di far fronte con l’autoflagellazione; provocarsi un dolore fisico autogestito per conquistare una parvenza di controllo.

I giovani autolesionisti hanno spesso vissuto una traumatica condizione di vittima, hanno spesso sperimentato esperienze di sottomissione e passività e, mettono in atto questi tentativi disperati al fine di riappropriarsi del potere sulla propria vita e sul proprio corpo.

Esistono terapie valide in grado di fornire soluzioni funzionali e risolutive per la gestione e l’elaborazione del proprio dolore e per convivere in maniera pacifica con le cicatrici autoinflitte, magari immaginandole come varchi chiusi dai quali il dolore non avrà più accesso!

APPROFONDIMENTI

Categorie diagnostiche e rispettivi criteri proposte dal DSM-V (APA, 2013):

“Autolesionismo non suicidario” e “Autolesionismo non suicidario non altrimenti specificato”; rientrano nei disturbi diagnosticati per la prima volta nell’infanzia o nell’adolescenza.

I criteri proposti dal DSM-V sono:

Criterio A

Nell’ultimo anno, in cinque o più giorni, l’individuo si è intenzionalmente inflitto danni di qualche tipo alla superficie corporea inducendo sanguinamento, lividi o dolore (per es. tagliandosi, bruciandosi, accoltellandosi, colpendosi, strofinandosi eccessivamente), con l’aspettativa che la ferita porti a danni fisici soltanto lievi o moderati (non c’è intenzionalità suicidaria).

Criterio B

L’individuo è coinvolto in condotte autolesive con una o più delle seguenti aspettative:

  • Ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi
  • Risolvere una difficoltà interpersonale
  • Indurre una sensazione positiva

Criterio C

L’autolesività intenzionale è associata ad almeno uno dei seguenti sintomi:

  • Difficoltà interpersonali o sensazioni o pensieri negativi, come depressione, ansia, tensione, rabbia, disagio generalizzato, autocritica, che si verificano nel periodo immediatamente precedente al gesto autolesivo.
  • Prima di compiere il gesto autolesivo, presenza di un periodo di preoccupazione difficilmente controllabile riguardo al gesto che l’individuo ha intenzione di commettere.
  • Pensieri di autolesività presenti frequentemente, anche quando il comportamento non viene messo in atto.

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